venerdì 5 maggio 2017

Così gli OGM brasiliani nutrono 700 milioni di maiali cinesi… E pensate che queste porcherie non arrivano sulle nostre tavole?



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Così gli OGM brasiliani nutrono 700 milioni di maiali cinesi… E pensate che queste porcherie non arrivano sulle nostre tavole?


Così gli ogm brasiliani nutrono 700 milioni di maiali cinesi

Carne, tonno, pomodoro… Dal Brasile alla Cina, viaggio nell’industria agroalimentare. Dove pochi produttori controllano filiere vitali


«I brasiliani usano le loro terre per produrre la soia che viene ingurgitata dai maiali industrializzati che la Cina ha importato dagli Stati Uniti; i cinesi usano le loro campagne per produrre il concentrato di pomodoro che verrà esportato in Africa o servirà da base al ketchup negli hamburger che i fast food come McDonald’s vendono in tutto l’occidente – e che stanno cominciando a spopolare in Cina. L’avanzata del modello sembra inarrestabile». Sono righe che danno un senso di vertigine, ma è tutto il libro I signori del cibo di Stefano Liberti a provocare stupore, indignazione, smarrimento.
E consapevolezza di quanto poco sappiamo delle grandi trasformazioni dell’industria agroalimentare. In estrema sintesi I signori del cibo è un libro su come globalizzazione e finanziarizzazione stanno cambiando l’industria del cibo. Il nodo sembrerebbe proprio questo. L’industrializzazione della produzione degli alimenti è fenomeno antico, almeno in occidente, ma globalizzazione e finanza hanno mutato profondamente le filiere e continuano ad acuire i processi più preoccupanti, ovvero concentrazione e sfruttamento delle risorse. Sempre più il cibo diviene una merce scambiata sui mercati globali da aziende che controllano tutti i passaggi della filiera.
Che tipo di aziende? Le cosiddette aziende locusta, gruppi che cercano di produrre al minor costo possibile e senza curarsi granché delle conseguenze sull’ambiente, sugli animali, su ciò che mangiamo. Liberti – non nuovo a libri di grande complessità, pensiamo ai suoi lavori sul land grabbing e sulle rotte dei migranti – ricostruisce questi processi attraverso un’inchiesta durata due anni, che lo ha portato in Paesi geograficamente lontanissimi – Brasile, Cina, Spagna, Stati Uniti, Senegal, Ghana, Italia – ma legati da rapporti economici stretti e ambigui, per guardare con i propri occhi cosa accade a uomini e animali, e per incontrare persone dai profili diversissimi, dai contadini brasiliani e ghanesi, ai pescatori di mille mari, ai broker di commodities alimentari, ai cinici manager delle multinazionali del cibo.
Per mostrarci gli esiti pratici di questi processi Liberti pedina la filiera di quattro prodotti – carne di maiale, soia, tonno in scatola e pomodoro concentrato. Ovvero la carne più consumata al mondo, il legume dalla crescita più alta, il secondo prodotto del mare più commercializzato dopo i gamberetti e il frutto più diffuso del pianeta. Che cosa scopre? Che il mega-mattatoio di Shuanghui, in Cina, può essere descritto come il simbolo della nuova industria del maiale: immensi e atroci stabulari di proprietà di pochi grandi gruppi quotati in borsa che hanno verticalizzato la produzione, e che controllano tutto il processo, con allevamenti da milioni di capi – spesso importati dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, che riescono a selezionare specie molto efficienti –, enormi impianti di macellazione e trasformazione e una grande rete di distribuzione.
Che va ad alimentare il più grande mercato del mondo, 700 milioni di maiali per un popolo che ha cominciato a mangiare carne con una certa costanza. Per cibare quei maiali ci si rivolge al Brasile. Oggi una rilevante parte del Mato Grosso è diventata monocolturale. Si coltiva soia ogm, milioni di ettari per tonnellate che vengono spedite in un Paese, la Cina, che fino a quindici anni fa non importava soia dall’estero, e oggi assorbe il 67% del commercio globale. La catena carne-soia, Cina-Brasile. Una catena controllata da pochi gruppi e, tra questi, la più grande azienda privata degli Stati Uniti, la Cargill, che ha un fatturato pari a cinque volte quello di McDonald’s e a quattro volte il pil della Bolivia o del Camerun.
E poi il tonno. Che Liberti ci racconta attraverso la voce dei pescatori, partendo dai pionieri della caccia al tonno tropicale, i pescatori baschi, per arrivare ai dolenti lamenti dei pescatori senegalesi, impoveriti da un’industria che vuole economie di scala, pescherecci ipertecnologici, e attori – in particolari thailandesi – che spesso agiscono fuori dai regolamenti internazionali. E infine il pomodoro, il concentrato di pomodoro. La Cina era un Paese che produceva poco concentrato di pomodoro. Oggi, dopo aver trasformato lo Xinjiang e i suoi enti para-militari in macchine per la produzione, è diventato il primo esportatore al mondo.
Con dinamiche apparentemente folli: si coltiva e trasforma in Cina e si spedisce in tutto il mondo, dove il pomodoro viene rilavorato e spesso esportato ancora una volta, a prezzi bassissimi, esiziali per mercati quali quelli africani. Le conseguenze di queste trasformazioni sono enormi e ambivalenti. Riguardano i modi della produzione, della commercializzazione, del consumo. Sembrerebbero esserci chiari vincitori e vinti, ma la realtà, così come in generale le conseguenze della globalizzazione, sono ambivalenti, contraddittorie. Si arricchiscono i grandi gruppi e i grandi produttori, e alcuni investitori, e in parte anche i contadini-trasformatori brasiliani, che escono da un’economia di sussistenza, e chi lavora nella filiera del pomodoro cinese.
Ma si impoveriscono i coltivatori di soia della Manciuria, messi fuori mercato dal Brasile, e i pescatori senegalesi, senza i capitali per metter su un’industria del pesce, e gli agricoltori del Ghana, e i piccoli produttori di diversi Stati africani. Gli effetti sulle risorse e sugli equilibri socio ambientali sono evidenti, il luogo della produzione e il luogo del consumo si allontanano sempre di più, si riduce la biodiversità, si stabilisce con l’ambiente un rapporto puramente estrattivo. Che fare? Liberti è consapevole della difficoltà di rispondere, trovare strategie, sa bene che filiere corte, bio, slow food sono risposte giuste e nobili ma spesso elitarie. Nel libro c’è una postfazione affidata alla campagna #filierasporca, che ribadisce i danni globali delle attuali filiere alimentari e invita a impegnarsi per la trasparenza e per un modello di sviluppo che protegga la biodiversità e rispetti il lavoro di uomini e donne.

fonte: https://www.greenme.it/informarsi/agricoltura/18860-multinazionali-multate-brasile-ogm

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